
L’anno scorso, per la prima volta, ho bocciato un alunno.
Cioè, non io, ovviamento, il Consiglio di Classe ha deciso di invalidare l’anno ad un alunno.
Però io ero la coordinatrice di classe e, ammettiamolo, il mio voto e la mia influenza hanno avuto un peso non piccolo.
Marco (nome di fantasia) era uno degli alunni più intelligenti di quella terza media. Io l’ho conosciuto in seconda, perché la loro docente di prima ha preso un ruolo in un’altra scuola ed è andata via.
Ricordo il primo tema fatto in quella classe: quello di Marco era decisamente più interessante degli altri, sia per ritmo narrativo che per contenuto. L’ortografia era quello che era, ma niente di drammatico.
Poi cos’è successo?
I suoi genitori si sono separati, molto male.
Ci sono stati avvocati, sentenze in tribunale, brutte affermazioni da parte del padre… o almeno questo è quello che ha riferito la dirigente che teneva i contatti con la famiglia. Ma poi queste cose nei paesini si vengono a sapere, insomma.
Fatto sta che Marco ha praticamente smesso di frequentare: a novembre ricordo di aver già chiamato la madre per avvertirla che la situazione delle assenze era preoccupante.
Per altro, anche quando era in classe, Marco non faceva assolutamente nulla: non aveva nessun materiale, nemmeno un quaderno e una penna, non lavorava, spesso dormiva. In particolare si rifiutava di prendere in considerazione compiti in classe e verifiche.
Abbiamo provato a parlargli, tutti quanti.
Lui lo diceva molto serenamente che non aveva nessuna voglia di stare a scuola, che si annoiava.
Ho provato a incoraggiarlo, ho provato ad ammonirlo, ho provato a metterlo di fronte all’utilità dell’avere una licenza di terza media, anche solo per prendere una patente.
Niente.
La scuola ha attivato percorsi di tutoraggio (questo da subito, appena si sono presentate le prime difficoltà), ha proposto percorsi con lo psicologo scolastisco (rifiutati)… la dirigente passava personalmente in classe ogni giorno per chiedere di lui e ha attivato una rete di persone sul territorio per cui, nel secondo quadrimestre, più o meno, Marco si presentava in classe.
Abbiamo discusso per mesi in Consiglio di Classe su cosa fare e cosa non fare.
Vedete, il nostro Collegio Docenti ha votato, tra i possibili motivi di deroga al limite delle assenze, il rischio di dispersione scolastica.
Questa era la grande domanda che ci siamo rigirati per le mani per mesi: cos’è meglio per Marco? Come minimizziamo il rischio che smetta del tutto di frequentare la scuola?
Lo promuoviamo, e l’anno prossimo si ritrova in una scuola dove nessuno lo conosce, dove quest’attenzione maniacale non è detto che ci sia, dove la rete diventa molto più lasca?
Invalidiamo l’anno rischiando di distruggere la sua motivazione?
La risposta la sapete: abbiamo deciso di invalidare l’anno.
Abbiamo fatto bene?
Abbiamo fatto male?
Come si stabilisce senza sapere cosa sarebbe successo se avessimo deciso altrimenti?
La verità è che quando siamo arrivati a farci quella domanda la rete educativa di Marco aveva già fallito da un pezzo. Una domanda del genere non bisognerebbe proprio arrivare a farsela, dovrebbe esserci un’attivazione del tutto diversa da parte di tutte le figure educative intorno a un minore che presenta segni così evidenti di difficoltà.
Forse in questo caso la scuola è stata la figura che si è mossa meglio, grazie alla nostra dirigente che ha dimostrato una cura e una sensibilità enormi.
Ma tutti gli altri?
E non dico solo la famiglia, perché in una situazione simile è ovvio che la famiglia non possa bastare.
Gli assistenti sociali, che dovrebbero supportare le famiglie in queste condizioni limite di fragilità, dov’erano?
Lo sapevano benissimo che una madre, un’infermiera su turni, in balia di una situazione pesantissima di separazione, con quattro figli, non può da sola occuparsi di un minore con un’evidente fragilità emotiva.
Possibile che sia stata la nostra dirigente ad attivare zie e zii, cugini e mezzo paese per riuscire a fargli frequentare gli ultimi mesi di scuola?
Proprio per questo alla fine ho votato per invalidare l’anno, perché la sensazione che avevo era che, senza la nostra scuola, Marco sarebbe rimasto solo.
E questo non è giusto, ne per lui ne per noi.
A giugno ipotizzavo con la dirigenza di trovare un modo per farlo entrare in quella che allora era la mia classe, che quest’anno sta affrontando la terza. Non volevo avesse la sensazione che avevo cercato di disfarmi di lui, volevo fargli sentire proprio la volontà di proteggerlo, di tenerlo ancora un attimo nel nido per dargli tempo di ritrovarsi.
Ora non so in che classe sia o come stia andando.
Non ho ancora avuto il coraggio di chiedere agli ex colleghi.
Ma se c’è qualcuno verso cui mi sento orrendamente in colpa è lui: cos’avrà pensato vedendo che ero andata via, dopo averlo costretto a restare?
